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La certezza incerta della fede
La lettura in questi giorni di un interessante libro da recensire, mi ha spinto e costretto a riflettere su alcune questioni che sento addosso alla mia carne. Come sempre mi capita, non sono capace di non cercare in quello che leggo qualcosa che abbia a che fare con quello che vivo adesso, un dettaglio, una frase, una posizione una visione delle cose con cui paragonarmi, da capire e da sfidare, e la cui sfida raccogliere per la mia posizione, per il mio inconcluso e inconcludibile "sein in der Welt". La domanda che il libro di Böttigheimer mi ha rimesso al centro, è accademica ma soprattutto esistenziale. La questione, accademicamente parlando, è molto semplice. Perché uno crede? Perché una persona dovrebbe credere? Che senso ha credere e quali sono le ragioni della fede cristiana? Questo è un terreno minato perché le ragioni del credere sono talmente personali che se non possono mancare in nessuno non possono mai essere generalizzate, ne va della singolarità irriducibile del proprio io. La fede è come il dolore: se tutti soffrono nessuno soffre allo stesso modo e le classificazioni servono a molto poco, poiché nessuno si potrà mai ritrovare fino in fondo in una categoria o un ideal-tipo: la realtà è infinitamente più grande delle generalizzazioni che ne possiamo dare. Ma la questione rimane: perché credere? Ha senso - cioè è ragionevole - credere? La declinazione cattolica del cristianesimo ha sempre tenuto insieme due aspetti tanto necessari quanto problematici, se pensati non singolarmente ma come coesistenti e tali che l'uno non può sussistere dove è negato l'altro. Mi riferisco al fatto che da un lato la fede è dono di Dio: senza la grazia nessuno pur volendolo può credere e dall'altro che la fede non è mai un motus animi caeci ma un atto umano e responsabile, qualcosa che intanto decidi in quanto hai delle ragioni per farlo; ragioni diverse per ognuno ma sempre ragioni, altrimenti se non è un atto umano la fede non ti è imputabile. Detto così sembra semplice ma quando poi vai ad articolare, a tentare di tenere insieme le due cose tutto diventa piuttosto complicato e l'equilibro, quello che impedisce di scivolare nelle due simmetriche tentazioni di razionalismo e fideismo - che non sono più la fede - si scopre essere piuttosto precario. Intanto sul primo punto: la fede è dono di Dio; viene subito da chiedersi come mai ad alcuni sì, ad altri no, perché ci sono persone che vorrebbero credere e non ce la fanno, perché ci sono altri per i quali viene quasi naturale credere; questi aiuti interiori dello Spirito Santo com'è che a volte si fa fatica a riconoscerli? Dall'altro lato se la fede si riduce all'evidenza della verità che proviene dal contenuto che la definisce, allora dov'è il bisogno della grazia se qualcosa viene riconosciuto come un'evidenza oggettiva? La fede perde il suo merito quando la ragione produce la prova, diceva Gregorio Magno, una frase che ha assillato tutti i medieveali scolastici da Abelardo a Tommaso, con quest'ultimo attardatosi a chiarire che la ragione applicata al contenuto della fede non serve a dimostrare tale contenuto ma a mostrarlo, trattandosi dell'uso di una ragione, come la chiama Tommaso, "persuasiva". Perché dovrei credere? Perché la struttura trascendentale della mia ontologia mi rappella (mi sia permesso il francesismo) che la rivelazione mi corrisponde, oppure perché il contenuto della fede è ragionevole? Ma allora dov'è il rischio della fede? Esso risiede in un'evidenza imperfetta delle ragioni della fede per cui queste arrivano fino ad un certo punto e poi ci manca qualcosa e ti rimetti al mistero di Dio perché accada il passaggio, il salto della fede? Il fatto è che la certezza della fede significa l'incertezza della sua capacità di spiegare esaustivamente l'umano. Le domande restano, le in-certezze pure, l'inevidenza del creduto, come incapacità a rendere ragione non tanto di sé ma quanto delle provocazione che la vita porta a quel contenuto, rimane. La fede allora è l'affidarsi permanentemente accompagnato da un'inevasibilità compiuta della domanda da parte di quel "logos della speranza" che solo in quanto non è sovrapponibile fino in fondo alla domanda può essere anche creduto. Se cerchiamo certezza non vogliamo credere, se malgrado l'incertezza della certezza (della fede) - come certezza desiderata ma inarrivabile de jure - crediamo questo è il senso forse della dialettica permanente e quotidiana del credere sensato e dell'assenso donatoCommenti
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Simona 16 Gennaio 2015
Quello che scrive mi colpisce molto perché lo sento molto vicino a me, a quello che vivo adesso e a quello che è stato il mio cammino di fede da sempre. Conoscere ciò che è vero, scoprire la ragionevolezza della fede che mi è stata donata. La fede nella mia vita è certezza di una Presenza amante che non esaurisce mai la mia domanda, ma la suscita. E' Dio che si fa cercare, a volte si lascia trovare superando le mie aspettative. E poi subito accende il desiderio di cercarlo ancora e di conoscerlo davvero... Non sapevo che lei avesse un sito suo personale!