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"Tu dubiti se ci sia lecito di morire senza necessita': io ti domando se ci e' lecito di essere infelici": il Dialogo di Plotino e Porfirio

È un dialogo serrato, dove il proposito di Porfirio di uccidersi si pone quale esito ultimo di una incontrovertibile certezza circa l'infelicità necessaria, ultima e insuperabile della vita, che spinge a preferire il non essere all'essere, il non vivere al vivere. La cosa interessante è che proprio mentre Plotino tenta in tutti i modi di ricondurre Porfirio alla ragionevolezza, cercando di farlo desistere, non costringendolo a fare nulla che non sia ragionevole, Porfirio smonta ad una ad una le argomentazioni del filosofo, con lucidità ma anche con quel coinvolgimento "patico" che non può mancare quando è in gioco la questione decisiva dell'esistenza.

Il proposito di Porfirio nasce da una constatazione riflettuta, non è il gesto istintivo che viene posto in un momento così difficile da rendere la sofferenza insopportabile. L'inclinazione al suicidio non nasce da una sciagura, da un dolore particolare e intenso che azzera il valore delle cose e della vita, ma si pone come l'esito del fastidio della vita, del tedio che Porfirio prova e che è così forte da diventare dolore e spasimo. Una noia che proviene dal conoscere e vivere la vanità di ogni cosa: tutto (intelletto, sentimenti, sensibilità) è pieno di vanità. L'unica cosa che sfugge all'inganno, che rimane vera e ragionevole è la noia. Tutto è vano: vani sono i piaceri, lo stesso dolore dell'animo, solo la noia, che nasce dalla vanità delle cose, non è mai vano o inganno, ma vera. Paradossalmente dalla vanità non proviene la vanità della stessa vanità perché essa è, al contrario, l'unica cosa di sostanzioso e durevole nella vita dell'uomo.

In questo dialogo la noia svela la sua natura autentica ovvero l'essere quel dolore definitivo che procura all'uomo perché lo rende autocosciente della sproporzione fra desiderio e realtà, fra domanda ed essere. Nei Pensieri Leopardi considera la noia "il più sublime dei sentimenti umani", provata non da tutti ma solo dagli uomini di spessore e di qualità; essa traduce l'esperienza del paradosso: «il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali» (58).

Il primo argomento di Plotino naufraga subito. Sul piano della ragionevolezza la realtà della noia, cioè il fastidio dell'essere, è quanto di più ragionevole esista e quindi ciò fa venir meno l'obiezione che nel suicidio ci sia irragionevolezza. Allora Plotino si gioca la carta dell'autorità: fallito l'argomento di ragione si appoggia a Platone che aveva proibito all'uomo la facoltà di sottrarsi da sé al carcere della vita. E qui Porfirio si appresta a sbugiardare Platone e con lui la tradizione cristiana che, oltre e più di Platone, è il vero fautore dell'eternità e della vita come bene.

Anzitutto: la natura (come fato-necessità) è stata e sarà sempre nemica dell'uomo perché l'unico potere che gli ha assegnato è il "principato dell'infelicità". L'inimicizia nasce dall'aver la natura fatto l'uomo con il desiderio della felicità e la sua effettiva negazione. L'unica medicina per risolvere la contraddizione, non potendo l'uomo non cessare di desiderare la felicità e la natura di negargliela, rendendolo così infelice, è la morte, la medicina di tutti i mali. Oltre questo rimedio non è possibile altro e l'atarassia stoica, «quel trovarsi senz'alcun desiderio al mondo, se non quello di un non so che, quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè patire assolutamente niun male, è impossibile; [...] perchè a niuno mai mancò nè è per mancar materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia» (Zibaldone 3501).

Ma il dolore dell'uomo è stato rafforzato quando venne inculcato nell'uomo il timore del "dopo la morte", di modo che, paradossalmente, essi si sono messi a temere più il porto che la tempesta. L'atrocità di questa posizione - che rivela più crudeltà del fato o della stessa natura, perpetua nemica dell'uomo - è l'aver trasformato in affanno la sola cosa che poteva liberare dall'angoscia; e così la vita è stata resa ancora più misera, ancora più infelice. L'unico barlume non di felicità ma almeno di "non dolore", è stato dissolto con il pensiero dell'immortalità. Il timore del "dopo morte" non ha sortito nessun buon effetto: non ha reso gli uomini giusti e meno violenti, anzi ha atterrito e spaventato i timidi e i buoni. Allo stesso tempo la promessa della ricompensa dopo la morte non ha fatto crescere la bontà degli uomini che agiscono nel bene o nel male senza la paura della punizione o la speranza della ricompensa. Una ricompensa così difficile da conquistare e una punizione così facile da meritare che l'uomo unisce all'infelicità la paura, e anziché vedere la morte come la fine delle sue miserie, si angoscia per un dopo che non c'è: questo è l'acme della crudeltà.

Solo apparentemente qui l'interlocutore è Platone perché in realtà Leopardi si riferisce con tanta vis polemica al cristianesimo. In un contesto meno segnato dall'afflatus e dal pathos di questo dialogo dove è in scena il dramma di un uomo che medita il suicidio, nello Zibaldone quattro anni prima Leopardi aveva già riflettuto in termini più filosofici (che personali) sull'inefficacia della speranza del cristianesimo a consolare l'infelicità in questo mondo o a dare riposo all'animo frustrato per l'impossibilità di realizzare i suoi desideri. La promessa di una felicità somma altrove rispetto a questo mondo non riesce a placare il desiderio o a compensare le privazioni perché è una felicità di ordine diverso da quello materiale, quello relativo al finito dell'esistenza che è l'orizzonte entro cui si colloca inestirpabile il desiderio della felicità, essendo la felicità la perfezione e il fine dell'esistenza e, infatti, desideriamo di essere felici perché esistiamo (cf Zibaldone 3498). Poiché i desideri insoddisfatti, quelli che non ci rendono felici, sono tutti relativi a cose terrene, «promettere all'uomo, promettere all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli desidera, si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori» (3501). Perciò «la religion cristiana non soddisfacendo a questo suo unico e perpetuo desiderio, nè promettendogli di soddisfarlo mai per niun modo, anzi non dandogliene speranza alcuna, segue che le speranze cristiane non sieno atte a consolare effettivamente il mortale, nè ad alleviare i suoi mali nè i suoi desiderii» (3505-3506). Non a caso il cristianesimo è più efficace nell'atterrire che nel consolare, nel minacciare che ne promettere, proprio perché la minaccia è la pena del senso che l'uomo intende bene, mentre la promessa è al di là del senso e l'uomo sempre s'inganna del tutto quando si fa un'idea di qualcosa di non materiale (cf 3503).

Ma allora, se c'è questa radicale, costitutiva inefficacia della prospettiva di un oltre la morte - sia come minaccia ma ancor più come promessa e ricompensa - perché privare l'uomo della sola speranza che il dolore cessi cessando la vita, essendo il dolore l'altra faccia necessaria della vita? L'unico rimedio alla vanità delle cose da cui nasce la noia che genera il dolore ininterrompibile, viene trasformato in fonte di angoscia, di paura e di dolore ulteriore per cui l'uomo si autonega anche l'unica possibilità di bene che gli è data nella vita, quella cioè non di essere felice ma di non soffrire più l'infelicità. Non c'è ricompensa, non c'è nulla dopo la morte, e dietro la promessa di un "oltre" c'è solo la pervicacia sadica di chi vuole privare l'uomo di quell'unica speranza e consolazione, la morte appunto. Tutto va verso la morte e la morte rende la natura umana non certo felice ma almeno al riparo dall'antico dolore; è quanto viene espresso dal coro di morti nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, quella morte che finalmente toglie lena, toglie vigore alla speranza, al desiderio, che scioglie dall'affanno e dalla paura, che introduce l'età vuota e lenta dove almeno tutto si consuma senza noia, cioè senza dolore, dove il vivere sofferto e doloroso diventa "confusa ricordanza", dove finalmente ci si può rendere conto del nulla che fu "quel punto acerbo che di vita ha nome". Eppure la morte, chiude a mo' di merisma il coro dei morti, è l'unica realtà che rende non lieti ma sicuri, perché la felicità è negata a chi vive ma anche a chi muore e quel non soffrire con la morte non è l'inizio di una nuova esistenza senza affanni, di un'esistenza diminuita dove si sente di meno, si desidera di meno, si spera di meno e perciò si soffre di meno, ma è la fine di tutto, il trionfo del nulla, l'unico rimedio a quell'essere che nel suo darsi è male, è dolore, è infelicità, è la condanna per l'uomo che è cosciente del dolore, che vuole il piacere, vuole la felicità ma la realtà glielo nega senza eccezione. L'unico piacere è la cessazione di dolore o disagio perciò, come ripetono le mummie, il languore della morte non è dolore ma liberazione.

Ebbene con la storia della vita dopo la morte siamo stati capaci di rendere infelice, di portare paura e timore anche rispetto alla morte e ci siamo fatti del male più di quanto ce n'abbia fatto il fato trasformando la morte in affanno e così rendendo ancora più misera la vita: "questo mancava a tanta infelicità della specie umana!" già la natura "ci flagellano di continuo sanguinosamente" e tu ci hai tolto l'unica possibilità di schermo, di liberazione dalla miseria!

Plotino non riesce a convincere Porfirio appoggiandosi all'autorità del filosofo e allora si gioca la carta del "contro natura": togliersi la vita senza necessità è l'atto più contrario alla natura perché è il sovvertimento dell'ordine delle cose che mira alla conservazione propria, è il ricorrere alla vita per spegnere la vita, è il porre l'essere a servizio del non essere.

La risposta di Porfirio-Leopardi è senza esitazione, è un mettere in questione la giustizia che la natura ha fissato nell'ordine delle cose. Perché assecondare un ordine ingiusto e illecito dal momento che ci fa desiderare la felicità e ce la nega prescrivendoci e condannandoci a essere infelici? Perché sono stato obbligato ad esistere senza potermi fare scegliere la felicità? In fondo non amiamo la vita in sé ma solo per noi, per amore e rispetto del nostro stare bene, tanto che quando stiamo male la vita la odiamo? Come può essere contrario alla natura fuggire dall'infelicità quando la stessa natura mi ha messo dentro il desiderio incancellabile della felicità? Perché non dovrei ripudiare la vita che è dannosa e cattiva se la natura me la nega negandomi la felicità che mi fa desiderare? La morte procurata pare essere il vero rimedio all'ingiustizia della realtà, il ristabilimento di un vero ordine dove domina il nulla essendo l'essere male e dunque disordine.

La verità, incalza Plotino, è che la tentazione del suicidio è tipica delle società corrotte in cui gli uomini non vivono "secondo natura". Passi pure una cosa del genere, ma allora o gli uomini naturali a fatica possono essere considerati della nostra stessa specie oppure se loro sono felici perché vivono secondo natura e noi infelici, tanto vale rimuovere questa infelicità per ristabilire l'ordine naturale, il che può avvenire solo con la cessazione dello stato presente. Se ricorriamo alla medicina, che non è affatto naturale, per alleviare i mal fisici provocati dalla corruzione della nostra carne, perché dovremmo considerare ingiusto ricorrere a quella medicina del suicidio come rimedio non naturale a un male non naturale (l'infelicità)? La vera ingiustizia sarebbe piuttosto "costringerci a perseverare nella miseria" mentre la ragione riconosce che essa è il solo rimedio valido ai nostri mali, la cosa più desiderabile ed anche la migliore. Uccidersi forse non sarà lecito ma di sicuro almeno sarà utile.

Plotino a questo punto comincia a cedere. In fondo riconosce che le argomentazioni di Profirio non fanno una piega perché è il fondo del ragionamento ad essere inattaccabile. Che cosa è meglio il patire o il non patire? L'uomo sa che sarebbe disposto anche ad accettare il patire se fosse unito al piacere; infatti siamo così desiderosi del piacere e della felicità che saremmo pronti anche a soffrire pur di averla, a condividere il piacere anche, anche se ci fosse dato anche se a tratti o per poco, con la sua negazione. E invece questo bisogno di felicità "non è adempiuto mai", invece ci tocca non soltanto non poter non patire ma dover patire senza poter godere e già solo un patimento senza la certezza di una compensazione, di un bene possibile, rende la morte preferibile alla vita. Porfirio insiste: la sola noia, che poi è l'esperienza del ritrovarsi privi di ogni speranza di una condizione felce, è motivo sufficiente a generare il desiderio di porre fine alla vita e chiunque si è confrontato seriamente con la sfida del proprio bisogno, con l'esperienza lancinante della domanda di felicità, è giunto a questa conclusione. Ciò che spinge gli uomini ancora ad amare la vita è solo un semplice e palese errore di calcolo, ovvero il paragone tra utili e danni che si verifica ogni volta che si acconsente ad abbracciare la vita.

 

Tanto vale allora ascoltare più la natura che la ragione. La natura infatti rimane nostra madre e per quanto non ci ami (ma, mi chiedo, che madre è allora?) e ci abbia fatti infelici, almeno ha cercato di rimediare a questo errore aiutandoci ad occultare o nascondere l'infelicità mentre la ragione con l'ingegno, la speculazione, la curiosità incessabile, le dottrine misere è la vera nostra nemica. Lasciamo perdere dunque la ragione e riscopriamo la natura che ci aiuterà a ritrovare il gusto della vita e a perseverare in essa. Le molestie e i mali della vita che ci accompagnano nell'ordinario e nel quotidiano vanno sopportati e la vita in fondo "è cosa di tanto piccolo rilievo" che non vale la pena arrovellarci. L'unica soluzione, l'unica via buona è quella dell'esempio e della stoica sopportazione: non rifuggire ma portare stoicamente quella parte di mali che il destino ci ha assegnati aiutandoci reciprocamente, sostenendoci nella fatica, facendoci compagnia gli uni agli altri e allora sì che la stessa fatica del vivere sarà diversa e la vita ci parrà breve per cui nel conforto degli amici ci rallegrerà il pensiero che una volta spenti essi ancora mote volte ci ricorderanno e ci ameranno ancora. È questa la chiusa poetica di Plotino alla quale Porfirio non ribatte, una chiusa che per certi versi annuncia quella solidarietà nell'infelicità condivisa e supportata che pare essere l'unico rimedio non per vincere ma almeno rendere sopportabile l'inestirpabile infelicità. Al fondo di tutto questo rimane: la nostra infelicità, la sola cosa arcana, la sola da cui niente potrà redimerci; restiamo solo noi a desiderare la felicità e a vedercela negata per ogni istante di vita che ci è concesso.

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