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Ritiro di Quaresima

(16 marzo 2025)

 

Siamo entrati nel tempo della quaresima, iniziata con l'austero segno delle ceneri, un tempo scandito potremmo dire da due parole: essenzialità e sobrietà. Quand'è che nella vita si va all'essenziale e si assume uno stile di sobrietà? Quando non hai più voglia di perdere tempo e di perderti nei rigagnoli inutili dell'esistenza, quando "il tempo si è fatto breve" non solo perché la vita ti è scivolata via, ma più profondamente perché la vita l'hai presa sul serio e perciò non te la vuoi far scappare dalle mani, non importa se hai venti anni o settanta. Andare all'essenziale per poter vivere correttamente il rapporto con il reale. Dalla dispersione all'unità, dalla distrazione all'educazione. Il tempo della quaresima è un richiamo all'essenziale da quel divagare continuo che ci definisce.

E l'essenziale è la Pasqua, è il Cristo risorto. Perché solo il fatto della sua risurrezione riempie di senso, contenuto e valore la speranza. La speranza è la cosa più difficile, tant'è che abbiamo bisogno di essere educati alla speranza, essa consiste nel riconoscere il Risorto. Cosa vuol dire? È la fede in una presenza che non solo mi salva ora ma mi dice che quello che più desidero non è vano, non è qualcosa che non so se accadrà ma è qualcosa di vero e concreto. E cosa ultimamente desidero? Noi desideriamo l'eternità, io desidero vivere per sempre, desidero ritrovare tutti coloro che ho perso, desidero vedere e capire il senso di quello che è stata la mia vita, dolermi dei miei errori, essere contento per il bene degli altri, per sempre, senza fine. Io voglio e spero questo, di tutto il resto sinceramente me ne frega molto relativamente e tutto l'affanno che noi mettiamo in altro, tante volte è solo un modo per coprire il fatto che noi a questa cosa non ci crediamo veramente, che per noi la resurrezione, il Cristo risorto e vivente, cioè presente (in greco c'è il perfetto non l'aoristo!) è uno slogan per cui non vediamo le cose a partire dalla fine ma da ciò che è stato.

Eppure per i discepoli solo la fine ha dato senso all'inizio, solo il Risorto ha dato credito e definitivo valore a quello che avevano intuito e abbracciato. La quaresima è per prepararci alla Pasqua, per superare la disillusione dei discepoli di Emmaus, per riconoscere che la promessa di Dio è vera, è compiuta, non è menzogna o illusione. Senza una certezza così ci prendiamo solo in giro perché sinceramente senza la certezza dell'eterno nel tempo non ha senso né il tempo né tutto il resto. E siccome noi questa fede non ce l'abbiamo ci perdiamo in discussioni inutili; penso all'inizio della Prima lettera di Paolo a Timoteo: «Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere in Èfeso, perché tu invitassi alcuni a non insegnare dottrine diverse 4e a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede. 5Il fine di questo richiamo è però la carità, che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. 6Proprio deviando da questa linea, alcuni si sono volti a fatue verbosità, 7pretendendo di essere dottori della legge mentre non capiscono né quello che dicono, né alcuna di quelle cose che dànno per sicure» (1Tm 1,3-7).

È la Pasqua che sostanzia la speranza perciò ad essa ci dobbiamo preparare come al centro di tutto l'anno, al cuore della nostra vita e della nostra fede. Questo è il punto: la Pasqua, il mistero del crocifisso risorto la "speranza contro ogni speranza", il fatto dal quale e nel quale siamo salvati, cioè redenti. Se quello che siamo e quello che viviamo non scaturisce da questa coscienza, da questa fede, stiamo perdendo tempo, diventiamo fastidiosamente verbosi (cf il brano di 1Tm richiamato prima), costantemente attaccati alle nostre analisi per difendere il nostro punto di vista. La verità è che abbiamo una fede del cazzo, questa è la verità per cui andiamo avanti con "genealogie interminabili" che nascono perché diamo per scontato l'essenziale che nel frattempo è già uno sbiadito ricordo a mo' di premessa.

È il Cristo risorto vivente, e quindi presente, il fondamento incrollabile della nostra speranza e dalla speranza proviene quella fiducia di chi si rimette nelle mani di un altro, non come uno che si disinteressa del suo concreto ma che si appassiona del suo presente affidandosi a Colui che della vita è il senso. Ma noi non abbiamo fede, non ce la facciamo e allora cerchiamo i surrogati; siccome abbiamo bisogno di ancorarci a qualcosa che ci dia stabilità, ci appoggiamo in genere a quello che ci sta più a cuore, a quello che ci piace di più o a quello che sappiamo fare meglio, finanche alle nostre abitudini, altro che soldi e capelli, già le nostre abitudini sono l'ancora, tanto che basta che qualcuno ce le voglia cambiare che viene giù il mondo. O l'uno o l'altro. Quando non c'è la fede, la misura siamo noi e dietro il paravento di Cristo decidiamo noi chi è il nostro fondamento, cosa davvero ci fa sperare e desiderare nella vita. La verità è che qualunque cosa a cui tu affidi la tua certezza, che ti sostiene nella vita, se non è la fede non dura, non vale la pena. Mi viene da pensare ai primi cristiani che erano considerati dei reietti, sospettati e perseguitati, tagliati fuori dalla società e anche dall'affetto delle famiglie; certo molti abiuravano, molti pensavano a pararsi il culo, non avevano nessuna voglia di compromettere la loro vita per Cristo. Altri però con tenacia e fiducia vivevano la prova con la fede in colui nel quale soltanto avevano forza (come ripete già san Paolo) e altri ancora davano la vita perché sapevano con certezza (la certezza della fede) che la vita donata non è mai persa in virtù della forza di colui che ha vinto la morte. Se capitasse a me oggi non credo in questo momento di essere capace di fare altrettanto. Ma basti pensare a quello che accade in tante parti del mondo dove essere di Cristo significa mettere a repentaglio non la propria carriera o il proprio benessere ma la propria vita.

Noi in realtà non abbiamo fede. Ma la fede, vedete, non è qualcosa che viene data una volta per tutte, è una realtà che appella quotidianamente alla nostra libertà. Perciò la vita della fede, la chiesa, i sacramenti, la vita del movimento, è fatta di gesti che si ripetono e si rinnovano, perché devi sempre tornare al punto sorgivo della fede da chiedere. Anche perché Dio ti dà la fede quanto basta per un giorno, come la manna nel deserto. Vi voglio leggere un brano di una predica che il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer (morto martire impiccato e bruciato dai nazisti) scrisse per il gruppo dei suoi ragazzi cresimandi:

 

«Questo giorno della cresima è un giorno importante per voi e per tutti noi. Non è cosa da poco che oggi professiate la vostra fede cristiana davanti a Dio onnisciente e alle orecchie della comunità cristiana. Per il resto della vostra vita, ripenserete a questo giorno con gioia. Ma proprio per questo oggi vi ammonisco alla piena sobrietà cristiana. ... La vostra fede è ancora debole e non provata e del tutto all'inizio. Perciò, quando più tardi pronuncerete la confessione della vostra fede, non fate affidamento su voi stessi, sulle vostre buone intenzioni e sulla forza della vostra fede, ma contate solo su colui che confessate, su Dio Padre, su Gesù Cristo e sullo Spirito Santo. E pregate nei vostri cuori: Credo, caro Signore, aiuta la mia incredulità. Chi di noi adulti non vorrebbe e non dovrebbe pregare così con voi? ... ... Ringraziamo Dio che ci concede quest'ora di confessione comune nella Chiesa. Ma tutto questo diventerà assolutamente serio, assolutamente reale solo dopo la cresima, quando tornerà la vita quotidiana, la vita quotidiana con tutte le sue decisioni. Allora si capirà se anche questo giorno è stato serio. Non si ha la fede una volta per tutte. La fede che oggi confesserete con tutto il cuore deve essere riconquistata domani e dopodomani, anzi, ogni giorno di nuovo. Riceviamo da Dio solo la quantità di fede di cui abbiamo bisogno per il giorno presente. La fede è il pane quotidiano che Dio ci dà. Conoscete la storia della manna. I figli di Israele la ricevevano ogni giorno nel deserto. Ma quando volevano conservarla per il giorno dopo, marciva. È così per tutti i doni di Dio. È così anche per la fede. O la riceviamo ogni giorno di nuovo o marcisce. Un giorno è appena sufficiente per conservare la fede. Ogni mattina è una nuova lotta per superare l'incredulità, la debolezza, l'ambiguità e la confusione, la paura e l'incertezza, per arrivare alla fede e strapparla a Dio. Ogni mattina nella vostra vita sarà necessaria la stessa preghiera. Sarà la stessa preghiera ogni mattina della vostra vita: Credo, caro Signore, aiuta la mia incredulità» (Questo è un estratto del sermone; cf le pp. 477-478 dell'ed. tedesca dei Dietrich Bonhoeffer Werke vol. 15).

 

La speranza come certezza del futuro, come bene, nasce dal "possesso" di Cristo ora, dalla fede che me lo fa riconoscere presente, vivo, e mi rende certo del futuro. La fede, che ti permette di vivere così, non è qualcosa che puoi darti da solo, la puoi chiedere; non solo chiedi a Dio di poterlo riconoscere in ciò che accade ma gli chiedi anche la grazia di un aiuto alla tua libertà perché anche rispetto alla nostra libertà, a motivo della sua debolezza, hai bisogno di un aiuto che la compie (non certo si sostituisce ad essa). Siccome rispetto a ciò che più conta siamo in un certo senso sprovvisti, dobbiamo domandare: questo ultimamente vuol dire la povertà. Chi può più dire di essere povero rispetto a chi manca dell'essenziale? Il povero chiede e attende, chi non chiede e non attende è perché già ha ciò di cui ultimamente ha bisogno e in cui riporre la certezza, la stabilità della sua vita. Conosciamo tutti la parabola di Lc 12,16-21, l'ampliamento dei granai per il raccolto superiore alle aspettative e la presunta sicurezza di poter star tranquillo e garantito per il resto della vita. Dov'è il motivo della nostra speranza, la certezza della nostra speranza?

Il futuro come tempo della pienezza e del compimento di qualcosa che accade già ora; se fosse solo da attendere non sarebbe capace di abitare la vita presente che inevitabilmente cercherebbe altri fondamenti, altri appigli, altre sicurezze molte delle quali legittime e buone, dal mettere su famiglia all'aiutare il prossimo, a fare il volontariato a salvare i migranti in mare ecc. ecc., non parliamo di cose o progetti disdicevoli. Chi non vorrebbe un figlio come Elon Musk o vivere il proprio riconoscimento attraverso quanto di buono uno sa fare o sanno fare i propri figli e nipoti.

Il cristiano non è un utopista che si sacrifica per un ideale la cui realizzazione vedranno sempre e solo gli altri dopo di lui; il cristiano è un realista che a partire dall'ancoramento al presente, il luogo in cui accade il motivo della certezza - ovvero Cristo - guarda al futuro con speranza e rilegge il passato alla luce del presente, esattamente come facevano gli apostoli: l'esperienza dell'incontro con il risorto nella concretezza del nuovo tempo che iniziavano a vivere non veniva letta alla luce di quello che era stato, ma ciò che era loro accaduto nel rapporto con quell'uomo era riletto e compreso alla luce di quello che stava accadendo allora, dopo la Pasqua a partire dalla Pasqua; tant'è che i vangeli nascono proprio come il Gesù ricordato: nelle circostanze che le comunità cristiane vivevano, nella certezza del Signore presente e risorto, ricordavano quello che lui aveva detto e fatto e lo rileggevano come qualcosa di fecondo per il presente, come qualcosa a cui tornare alla luce del presente, tant'è che tante cose di Gesù si sono perse non perché gli apostoli erano degli smemorati ma perché magari il presente imponeva circostanze o situazioni nuove che non erano più quelle di prima, vissute con il Gesù prima di Pasqua. Non è il passato che illumina di senso il presente ma è il presente che dischiude la potenzialità del passato in quanto lo verifica; non è la memoria dell'origine che rende vero il presente ma è il presente alla luce dell'origine che ri-rende vero l'origine. Se non fosse così o staremmo a rimpiangere il passato come l'età dell'oro rispetto al quale adesso è tutta decadenza, o ci concentreremmo parossisticamente sul futuro come luogo in cui avverrà quello che non avviene più. Ma questa è utopia, non è speranza! La speranza è la certezza di un destino buono che nasce dall'esperienza riconosciuta del mistero che ha il volto di Cristo incarnato nella concretezza di luoghi, persone, storie, un mistero che si dà una volta per tutte ma che dobbiamo riconoscere volta dopo volta.

 

La povertà è la condizione della speranza, del rimettere ogni cosa e rimettersi a Cristo che è essenziale ed è l'essenziale. Ma noi facciamo fatica a rimettere noi stessi in uno che nemmeno sempre sappiamo se c'è, a vincere il sottile dubbio che tutto sia illusione come nel sogno di Jean Paul, o nel Cantico del gallo silvestre di Leopardi o nel frammento profetico in Aurélia di G. de Nerval o come nelle parole di Hegel: «Dio è morto - questo è il pensiero più terribile: che tutto ciò che è eterno, tutto ciò che è vero non sia, che la negazione stessa sia in Dio; a ciò si connette il dolore supremo, il sentimento della mancanza più completa di vie di scampo, il toglimento di tutto ciò che vi è di più alto» («La religione compiuta secondo il corso di lezioni del 1827», 256). Perciò non sopportiamo l'abisso dell'essere appesi, del dovere tutto a uno che ti dona tutto perché Lui solo è l'origine e il destino di tutto. Noi non ce la facciamo a vivere questo abbandono totale, assoluto (cioè senza condizioni), pari a quello di Cristo sulla croce che nell'ora suprema della prova dinanzi al silenzio del Padre che non risponde al suo bisogno estremo, si affida, si abbandona pur sentendosi abbandonato. È l'atto estremo della libertà che salva il mondo: affidarsi (il movimento della fiducia verso qualcuno, ad-fidarsi) a Chi non ti aiuta nel bisogno, a chi è lontano da ciò che ti urge tragicamente (siamo a ridosso della morte drammatica di Gesù). Io una cosa così non riesco a viverla e mi attacco alle cose, a quello che so fare cercando in esse quel riconoscimento che sembra dare valore e spessore a quello che sono. Questo non vuol dire disprezzare le cose, avere paura di avere, non dare il massimo per riuscire nel proprio lavoro sul piano dei risultati, sul piano economico, ci mancherebbe! Ma il punto è a monte: cosa dà consistenza alla tua vita? Paradossalmente è la certezza di Cristo che ti spinge, ti muove a darti da fare nella realtà. La certezza del futuro che compie il reale non ti allontana dal reale ma te lo fa amare di più. Mi ha sempre colpito un'idea calvinista (resa diffusa da Max Weber ne L'etica protestante e lo spirito del capitalismo); per Calvino solo alcuni sono predestinati alla salvezza. E come facciamo a capire se noi facciamo parte di quel gruppo? Se attraverso il nostro impegno nel mondo, nel lavoro, otteniamo successi perché Dio ricompensa quinti vivono il reale con la fede nel destino.

 

Concludo con questa frase di Giussani che è stata citata più volte agli esercizi: "In questa terra non si appartiene a Cristo se non nella speranza. Perciò è nell'educazione alla speranza che si penetra l'esperienza della redenzione" (Porta la speranza, 162).