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Ritiro di Avvento (Larino, 1 dicembre 2024)
La speranza è la parola sotto la quale papa Francesco ha collocato il prossimo giubileo che vivremo a partire dal 29 dicembre 2024 con l'apertura della porta santa.
La speranza che, come scrive Paolo ai Romani "non delude", è qualcosa di cui ti poi fidare e su cui puoi contare. A dire il vero uno sguardo anche sommario alle circostanze drammatiche che stiamo vivendo oggi rischia di farci avvertire un certo scetticismo verso questa parola. Sembrava avessimo toccato il fondo con il dramma del covid e invece finita la pandemia l'uomo è tornato ad essere quello di sempre e così facciamo i conti con crisi, guerre di cui non si vede la fine, odio, stermini. E allora la domanda: si può ancora sperare nel mondo in cui viviamo, nell'oceano di male sul quale galleggiamo? Se la speranza fosse l'ottimismo utopico di tanta modernità potremmo archiviarla presto, ma noi sappiamo che la speranza è una virtù teologale (assieme alla fede e alla carità) e come tale è grazia, dono, non è qualcosa di cui puoi disporre da solo ma è, appunto, dono di un Altro. La speranza è il frutto della giustificazione, cioè dell'incontro con Cristo che ci salva la vita, e perciò non delude, perché non è l'opera nostra, non è definibile o riconducibile al nostro sforzo titanico di vincere il male o, più semplicemente, di dare un senso alla vita districando il libro del mistero (Pascoli) ma, come dice sempre san Paolo "è stato riversato nei nostri cuori", come una realtà che inerisce alla natura più profonda del nostro essere (quella che la Bibbia chiama cuore).
La speranza è qualcosa che solo un altro ti può dare, che solo Cristo ti può dare, addirittura la salvezza è proprio il dono della speranza che ci rende forti nella tribolazione (non ci risparmia la tribolazione ma ci rende forti nella tribolazione!). Chi non ha incontrato Cristo è senza speranza. San Paolo in due passaggi, ripresi da Benedetto XVI nella Spe salvi, lo dice con chiarezza; Ef 2,12: e 1Ts 4,13. Ef 2,12: «Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani nella carne, chiamati non circoncisi da quelli che si dicono circoncisi perché resi tali nella carne per mano d'uomo, 12ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. 13Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo». E in 1Ts 4,13 Paolo invita a non affliggersi come quelli che non hanno speranza: dall'assenza di speranza sorge l'afflizione, cioè il dolore che deriva dall'amara constatazione che il destino delle cose e delle singole esistenze è il nulla. È solo nella prospettiva biblica che la speranza si carica di valore ad ogni modo positivo, indicando un'attesa verso il futuro non incerta ma soltanto buona, rivolta all'opera salvifica di Dio in Gesù Cristo.
Senza Cristo non c'è speranza e non a caso presso i Greci che non avevano conosciuto Cristo la speranza era una passione inutile perché non razionale, per cui il saggio, come ripete Seneca, vive senza speranza e senza paura, non si preoccupa del futuro perché esso è già scritto o comunque irrilevante rispetto a quello che può fare il singolo. Senza futuro non ha senso nemmeno la speranza.
Questo riferimento al futuro si declina nella Scrittura con riferimento ad un'altra parola: la promessa, la parola che meglio definisce liturgicamente il tempo dell'avvento. Dio si rivela, dice una parola di promessa che mette l'uomo in cammino, lo distacca dal presente, suscita un'attesa, rende, cioè, l'uomo sperante.
Pensiamo alla parola che chiama Abramo: quella parola era un comandamento ("mettiti in cammino, esci dalla tua terra") e una promessa, che indicava la meta di questo pellegrinaggio: una terra e una discendenza numerosa e benedetta. La fede di Abramo è fiducia nel futuro promesso di Dio, ossia speranza, che diventa principio di azione e di vita. La promessa di Dio ha come contenuto il desiderio dell'uomo: nel caso di Abramo una terra (Abramo è un pastore, nomade, sempre vagante) e una discendenza (i figli erano il luogo in cui si concentrava ogni altra attesa di futuro e di vita e Abramo era anziano). La promessa, inoltre, si contrappone alla tendenza dell'uomo ad assicurarsi autonomamente il proprio futuro. Pensiamo anche alla rivelazione di Dio a Mosè, evento fondatore del popolo ebraico. Ancora una volta la parola di Dio è una promessa che mette in cammino: promessa che corrisponde all'attesa, cioè al bisogno di liberazione (cf Es 3, 7-10: il grido degli israeliti) e di una terra proprio dove vivere da liberi. La speranza «non è rivolta all'attuazione di un ideale che l'uomo stesso proietta nel futuro, bensì è la fiducia in Dio che, prescindendo dal mondo e dall'io umano, persevera nell'attesa del bene promesso da Dio e anche quando la promessa è compiuta non si risolve in un possesso, ma continua ad essere fiducia che Dio conserverà ciò che ha donato» (GLNT II, 545). Fiducia in Dio e attesa perseverante (cf Apocalisse) sono elementi costitutivi della speranza cristiana.
Noi siamo "promessa" cioè attesa e l'attesa sposta l'orizzonte al futuro. Per noi non funziona il carpe diem perché la persona non è fatta per l'istante ma porta con sé una dinamica di progettualità (l'uomo è progetto diceva Heidegger), di costruzione, di prospettive ad ampio raggio per cui lavora, si impegna, costruisce, progetta, tutte cose che ci ricordano come l'orizzonte della vita non è mai il solo "qui e ora", per quanto forte possa essere il pericolo e il rischio che il volgersi indietro o il proiettarsi sempre in avanti svuotino di senso il presente che è il tempo che ci è dato.
Se non fossimo attesa non guarderemo al futuro, ci concentreremmo solo sul presente ma poiché strutturalmente l'uomo attende, è proteso verso il futuro, e in un certo qual modo la vivibilità del presente è in forza della domanda che attende il compimento della promessa, cioè dell'attesa. Se c'è attesa c'è vita, l'attesa non ti allontana dal presente ma ti immerge nella concretezza dell'oggi poiché solo nell'oggi puoi cogliere il segno del compimento. Ci ricordiamo tutti le parole di Pavese sull'inutilità dell'ora quando non attendi più nulla; paradossalmente se non attendi, cioè se non ti definisce il futuro, dovresti essere più concentrato sul presente e invece, come ci ricorda Pavese, quando non attendi più nulla tutto è inutile, "la lentezza dell'ora è spietata".
Ecco la differenza con una prospettiva marxista: il compimento di là da venire, mentre per il cristiano il di là da venire si attende nel presente e si riconosce come una presenza.
Sei pro-iettato al futuro perché il rapporto con la realtà non riesce a corrispondere, ad esaurire, a colmare la domanda e l'attesa. C'è un desiderio, un'inquietudine che non puoi colmare, il cui riempimento puoi solo sperare (Kafka: anche se la salvezza non viene voglio essere pronto...). È qui il grande paradosso della nostra condizione: che quello che più desideri, che quella realtà che più ti fa essere, non lo poi costituire tu, lo puoi solo ri-conoscere. Sant'Agostino, che quanto a inquietudine se ne intendeva parecchio, alla fine si dovette arrendere al fatto che la verità la incontri e la consoci solo se la ri-conosci, per cui - diceva lui - prima devi credere e poi potrai capire poiché la comprensione è il frutto della fede non ciò che viene prima.
San Tommaso su questo dice delle cose interessanti. Dal suo punto di vista la riuscita di ogni essere consiste nel raggiungimento del suo fine; una creatura che mancasse il fine sarebbe inintellegibile cioè senza senso, inutile (inane). Poiché Dio ha posto sé come fine ultimo dell'uomo, questi raggiunge la sua perfezione, cioè il suo fine, solo conoscendo l'essenza della prima causa: «la beatitudine ultima e perfetta non può consistere se non nella visione della essenza divina [...] L'uomo non è perfettamente beato finché gli rimane qualcosa da desiderare e da cercare [...] Per la perfetta beatitudine si richiede che l'intelletto pervenga all'essenza stessa della prima causa. E così la avrà la sua perfezione mediante l'unione con Dio come all'oggetto nel quale soltanto consiste la beatitudine dell'uomo» (ST I-II, 3, a. 8.). Se tale essenza non fosse conoscibile l'uomo non raggiungerebbe mai la beatitudine, ma questo è irragionevole; infatti, essendo nell'uomo un naturale desiderium cognoscendi causam, «se l'intelligenza della creatura razionale non potesse giungere alla causa suprema delle cose, tale desiderio naturale rimarrebbe vano» (ST I, q. 12, a. 1, resp.); ma, come Tommaso aveva scritto nella SCG citando Aristotele (Natura nihil facit frustra (cf De coelo II,11), è impossibile che un desiderio naturale sia vano il che significa che esso se c'è è attuabile (Cf SG III,48); pertanto poiché il desiderio di sapere, innato in tutte le sostanze intellettive, non può acquietarsi finché non si arriva a conoscere l'essenza della causa degli effetti - infatti chi conosce che una cosa è desidera per natura di conoscerne la ragione, ossia di comprenderne l'essenza - tale desiderio non può che acquietarsi conoscendo la causa prima, Dio, nella sua essenza (Cf SCG III,50).
La "paradossalità" della condizione umana risiede nel fatto che la realizzazione di sé deriva dalla conoscenza di qualcosa, o meglio di Qualcuno, che però rimane inattingibile sul piano della mera ragione dal momento che riguardo a Dio possiamo stabilire che c'è, possiamo individuare alcune sue caratteristiche ma se lui non si rivela quanto alla sua realtà più profonda (quid est) possiamo solo dire ciò che egli non è, con una inevitabile "deriva" apofatica che accresce il paradosso e l'inintelligibilità dal momento che affermare l'inconoscibilità compiuta di ciò che solo ci può rendere felici, ovvero ci può salvare, semplicemente rende la creatura del tutto inane. Per questo il superamento della contraddizione può avvenire soltanto se Dio colma questo "fossato" facendosi conoscere, cioè venendo incontro a noi.
Desiderio, cioè attesa, promessa e compimento dall'alto e dall'Altro. Se non accade questo incontro rimane solo lo struggimento del desiderio che rende ancor più insensata e sbagliata la condizione umana poiché siamo le uniche creature che non potranno mai raggiungere ciò che essi desiderano dal momento che non c'è nulla che corrisponda all'ampiezza del desiderio. Per cui o ti disperi (Leopardi, Cioran) oppure accetti questa condizione e vivi come se il senso delle cose fossero le cose stesse (Nietzsche).
A noi tocca quella "indisponibilità all'attesa" di chi non accetta di essere fatto come promessa di compimento che avverrà secondo le modalità che un Altro decide, una sorta di cedimento rispetto alla nostra umanità. Diventiamo insoddisfatti e distratti e soprattutto cessiamo di desiderare assecondando la natura infinita del nostro desiderio. L'orizzonte infinito viene sostituito dalle cose della vita spicciola, tutte belle e legittime ma non tali da esaurire il senso della vita stessa. Abbassare il livello del desiderio, concentrandoci sulle cose da fare: il mio lavoro, i figli da educare, i miei interessi, il tempo per me ecc. e a poco a poco rimane l'io con le sue voglie...
Ma noi abbiamo incontrato la grande grazia, noi siamo dei "graziati" per cui sappiamo che il compimento della promessa non è qualcosa di cui non sappiamo se accadrà ma è una realtà presente che ci rende certi di ogni cosa, anche del futuro. La fede non è credere che questa cosa accadrà ma la fede è l'esperienza di ciò che è già accaduto che diventa certezza anche per il futuro. Tutto trova in Cristo il suo significato, tutto diventa segno di lui, tutto cessa di essere obiezione per diventare invece occasione. Noi non attendiamo qualcuno senza sapere se c'è e se verrà, noi attendiamo qualcuno che è venuto e siamo certi che ritornerà. La nostra speranza è sempre e solo Cristo al quale ci dobbiamo attaccare: "rimanete in me".
La speranza si fa carne, si ca concretezza, si fa comunione dentro un popolo di amici: una compagnia ecclesiale, cioè gente che si mette insieme per questo e solo per questo: Cristo. Una concretezza, una carne poiché solo se conosciamo Dio visibilmente, se Dio cioè diventa carne, possiamo essere rapiti (non è opera nostra, è opera Sua) all'amore di ciò che è invisibile (cioè al senso delle cose che è nelle cose ma non coincide con le cose, perciò è invisibile), al Mistero che è il senso di Cristo e il senso della nostra compagnia. Chi ti può guardare, abbracciare, consolare, rialzare se non una presenza carnale, tangibile che non decidi tu (sarebbe altrimenti un idolo)?
Per questo dobbiamo guardare alla nostra amicizia come una cosa sacra di cui Cristo si serve per mostrare a tutti il suo volto: è la missione! graziati e chiamati, poiché se noi non possiamo vivere senza Cristo, anche Cristo ha bisogno di noi, della nostra unità perché si incarni per altri. Senza la missione il dono è finito, senza la generazione il carisma è andato. È se opera, ma non opera senza di noi sebbene la sua opera non sia certo la nostra opera. Noi invece pensiamo di poter prescindere dalla missione per poter vivere Cristo. Non è solo il desiderio di rendere l'altro partecipe del miracolo che mi ha riguardato ma è rendere possibile per altri questo miracolo.
Una compagnia missionaria non autoreferenziale che con la sua unità diventa strada al destino, casa della speranza, dove si vive di Cristo e perciò si costruisce e custodisce l'unità nell'obbedienza che nasce dalla sequela perché non prevalga il nostro sentimento, dice la liturgia, ma l'azione dello Spirito.
La comunione, l'unità dei credenti, come ricordava Prosperi nella GdA, è il metodo che Dio ha scelto per rimanere presente nella storia, è lo scopo di tutto; quando celebriamo la messa la cosa più importante è la costruzione del corpo di Cristo subordinato al quale è la comunione perché fare la comunione non è il fine ma il mezzo: "per la comunione al corpo e sangue di Cristo diveniamo un solo corpo": questo è lo scopo dell'eucarestia, l'unità del corpo mistico di Cristo perché si renda visibile il corpo fisico non sacramentale di Cristo ovvero la sua presenza mediante l'unità dei credenti. È la nostra unità che preserva Cristo dall'astrattezza e la compagnia dal divenire una "stampella sociologica", una forma di circolo rivestito di religiosità. È dall'incontro che accade dentro una comunione che l'io ri-nasce (guarda caso il battesimo è detto ri-nascita) ed è da questa rinascita che la missione prende forma non come ossessione del fare ma come forma nuova della vita.
La comunione, il punto sorgivo, presenta delle caratteristiche. La prima è l'autorevolezza da non confondere con l'autorità poiché la sorgente dell'autorevolezza non è l'autorità e nemmeno la corrispondenza ma la comunione ovvero è l'unità: è solo il legame tra noi, l'affezione tra noi che sgorga dal riconoscimento dell'incontro fatto che rende qualcuno autorevole. Non è se quello che dice mi corrisponde ma se io vivo la comunione nel riconoscimento che la radice del nostro legame è Cristo, per cui senza questa realtà non c'è Cristo per me; Cristo c'è sempre, ci mancherebbe ma Cristo per me perché vedete il movimento non è l'occasione che ci lasciamo dietro quando abbiamo capito che il senso della compagnia è Cristo ma è il metodo per cui se non vale più non è mai valso. In secondo luogo i gesti: la comunione si esprime nei gesti che sono utili se ci stai veramente, non per obbedienza alla routine. Certo la comunione è coinvolgimento di vita dice don Giussani per quanto nella libertà più assoluta anche se la misura della libertà è la misura della comunione. In terzo luogo la comunione dei beni cioè la condivisione del bisogno (il valore del fondo comune per intenderci).
Infine la comunione del giudizio ovvero la comunione all'origine del giudizio; in altre parole il paragone con la comunione delle ragioni di quello che faccio e decido.
Vorrei concludere con le parole che don Giussani usa per dire il senso dell'amicizia (p. 30).
Abbiamo tutto da chiedere, del resto l'avvento è il tempo della domanda ...